Si dice spesso che abbiamo la guerra alle porte di casa. E questo è vero, vista la collocazione geografica della Libia, ma da un altro punto di vista non è vero, nel senso che sposta all’esterno quello che è un problema interno, interamente nostro. I termini della questione sono semplici. Viviamo in un mondo unico, reso ancora più unico dagli irreversibili processi di globalizzazione economica e culturale. La rivoluzione nei paesi arabi ha portato in primo piano l’esistenza di una generazione che ha gli stessi problemi di libertà, di esistenza, di realizzazione delle giovani generazioni europee. Il muro che separava l’Europa democratica dal nord Africa dittatoriale, prigioniero di rais inamovibili, è caduto per sempre. Mentre da noi il declino della democrazia, il prevalere di governi conservatori e di patetici rigurgiti razzisti suscita la crescente indignazione delle giovani generazioni condannate alla precarietà, lì in nord Africa si assiste al crollo progressivo di una società chiusa, governata da gruppi dirigenti addirittura familistici, rapinatori dei loro popoli.
Questo doppio processo di scoperta della democrazia nei paesi arabi e di rivolta contro la crisi della democrazia in Europa ci rende parte di uno stesso universo politico e sociale.
Per questo la guerra in Libia non è fuori dei confini, ma dentro i nuovi confini che la realtà si è incaricata di tracciare. Questa è la ragione per cui ci riguarda da vicinissimo. La vittoria o la sconfitta della rivoluzione araba è la nostra vittoria o la nostra sconfitta.
E questo ha due conseguenze importantissime.
La prima è che non possiamo rifugiarci nella facile denuncia della guerra e invocare la pace, come se il modo in cui si arriverà alla pace non ci riguardasse.
La seconda è che i migranti che arrivano dal nord Africa devono essere riconosciuti come nostri concittadini, che vengono da una regione in crisi del nostro stesso mondo. Non diversamente dai meridionali che arrivarono nel nord Italia tra gli anni ’50 e ’60, o degli italiani che emigravano in America quando ero ragazzo (tra New York e il Canada ci sono – tanto per dire - centinaia di Sparagna emigrati…).
Già un paio d’anni fa su www.frigolandia.eu, denunciando il “gendarme libico Gheddafi” arruolato dal governo Berlusconi come killer dei migranti e ancora prima nell'articolo “Genocidio in mare...nessuno vede?”, proponevo una linea di traghetti democratici che unisse il nord Africa all’Italia, affinché chi volesse partire da quelle terre potesse farlo in modo tranquillo, senza essere rapinato e senza rischiare di morire annegato. Oggi quell’idea apparentemente “provocatoria” ed estrema dimostra tutta la sua attualità e la sua giustezza. La tragedia dei morti annegati nel canale di Sicilia (dai 20 ai 30 mila negli ultimi anni, cifre arrotondate per difetto) è una tragedia che ci riguarda da vicino. Quei morti sono nostri fratelli e sorelle non anonimi invasori clandestini, come continua a gridare la destra razzista che ci governa.
E qui si torna al punto decisivo di tutti questi ragionamenti. Come in Egitto, Tunisia, Libia i giovani hanno trovato il coraggio di ribellarsi alle dittature di Mubarak, Ben Ali e Gheddafi, anche qui bisogna trovare la forza morale e il coraggio di ribellarsi alla pagliaccesca dittatura berlusconiana e alla sua infinita degenerazione. Saranno i nostri giovani coraggiosi come i loro coetanei arabi o dovremo aspettare che il cambiamento venga proprio dai nuovi migranti?
E’ in questa sfida, in questa gara rivoluzionaria a distanza tra gioventù del nord e del sud che si gioca il nostro destino e il futuro dell’Italia stessa.
Nell'immagine in alto: la copertina di Frigidaire n.233 in edicola nel mese di aprile 2011 e una vignetta di Giorgio Franzaroli pubblicata sullo stesso numero.
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